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L’educazione digitale spetta alle famiglie

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Sul sito de “La Stampa” è apparso un commento di Gianluca Nicoletti, giornalista, conduttore radiofonico, scrittore e polemista, sulla necessità di intervenire a livello scolastico sulla mancanza di educazione digitale dei nostri giovani (espresssione che reputo orrenda, ma la uso tanto per capirci).

Il tutto, dopo che tremila persone hanno ridiffuso un filmato hard di una sedicenne di Torino che faceva sesso nel bagno di una discoteca e che a Sestri Levante un’altra minorenne è stata ripresa e “condivisa” sui social network dai coetanei mentre pestava una dodicenne.

Nicoletti afferma che

“Non si potrà veramente parlare di «buona scuola» in Italia fino a quando, per legge, non si formeranno insegnanti specifici di «Educazione alle relazioni digitali».”

e propone di

“introdurre il «social networking» come materia obbligatoria sin dalle classi elementari.”

La scuola come rimedio di ogni male, come pronto soccorso emergenziale quando le emergenze sono già dilagate in tutta la loro gravità, è una concezione senza dubbio comoda, ma che non guarda ai problemi nella loro interezza. Del resto, fateci caso, la scuola dovrebbe occuparsi, si veda il caso, di educazione alla legalità, di educazione alla lotta alla mafia, di educazione alla diversità, di contrasto del bullismo, di sensibilizzazione a una sessualità responsabile, di individuare i casi più problematici e se ne potrebbero aggiungere ancora tante.

In breve, bisognerebbe -secondo Nicoletti- far sì che i “nostri ragazzi” di cui sopra imparassero che riprendere una ragazza che massacra di cazzotti una compagna più piccola di lei e poi far circolare il video è una cosa sbagliata. Ma lo sanno già. Ed è per questo che lo fanno. Perché è sbagliato, perché è proibito, perché non si può, perché non si fa.

E il filmino della sedicenne di Torino è stato “amplificato” da tremila persone, non una. Ora, che queste tremila persone siano state TUTTE dei ragazzi e delle ragazze in età scolare non ci credo. Vuoi che non ci sia stato qualche maggiorenne a farlo circolare su Facebook o su Twitter?? Ma mi ci gioco tranquillamente la testa e spero solo che la polizia postale li abbia individuati e che ora si stiano grattando il capo a ripensare a quel che è successo, e che non è vero che sui social network puoi fare tutto quel che ti pare, no, non puoi.

E’ evidente che questi comportamenti sono dei calchi di modelli familiari, dove, bene che vada, questi ragazzi hanno dei genitori che hanno a loro volta il loro bravo profilo Facebook e lo riempono di emerite stronzate, per un gusto esibizionistico e una pruderie ormai consolidati. Mi si dirà che rimbalzare una clip di sesso in discoteca è brutto, è sbagliato, è male. Ma perché, mettere le foto dei propri figli minorenni (quando non addirittura infanti) sui social, a far vedere al mondo intero che Pierino è sul vasino, che mangia, che sorride, che è imbronciato, che piange, tutto questo invece va bene, sì?

E poi ci dovrebbe rimettere mano la scuola, quando a sei anni i bambini sono abituati ad essere delle vere e proprie star delle reti sociali, protagonisti di scatti e di selfies a profusione (perché anche tu, genitore, non ce lo vuoi far giocare tuo figlio col tuo iPhone del piffero, che ti sei indebitato per trenta mesi per averlo e che se ti compravi uno smartphone ci facevi le stesse cose e risparmiavi pure?) e di commenti al limite del neurodelirio tipo “Bello!!” “Amoreeeeeeee…” “Ma quanto è caro/a!” e diluvi di “Mi piace”, imparando da subito che più sei cliccato più hai visibilità più sei figo.

Eppure per qualcuno non resta che la scuola. Che dovrebbe anche, peraltro, essere un posto dove si insegnano italiano, storia, geografia, matematica, scienze, religione…


4000 e sentirli poco. Anzi, pochissimo!

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Tratto dal sito gayspeak.com

Tratto dal sito gayspeak.com

Il blog sta arrivando ai 4000 articoli. Si chiamerebbero “post” ma non stiamo tanto lì a limare.

L’ho sembre detto che curare un blog è un po’ come curare un bimbetto, e quest’anno, il 25 aprile, il bimbo-blog compie anche 11 anni.

Oddio, qualche imbecille che ha tentato di tapparci la bocca c’è stato, ma siamo sempre qui e lui l’ha preso nello scodellavivande.

4000 articoli in 11 anni significa scrivere una media di un articolo al giorno. D’accordo, ci sono quelli brevi, alcuni (pochi, anzi, pochissimi) non sono nemmeno miei, ma è una specie di appuntamento quotidiano che ti fa tremare i polsi e che ti fa pensare, davanti al foglio bianco (tutti i post che scrivo li butto giù con l’editor di testo, poi li copio-incollo sulla piattaforma di WordPress) “Maremma cignala, e ora che cazzo scrivo?” Perché non ne hai sempre voglia, no, proprio no. Qualche volta, anzi, il blog non lo guardi nemmeno, che faccia il suo corso e la gente resti a per uno, tre, cinque, sette, nove giorni o quello che sia.

Però Marianna Gatta quant’ho scritto! E quanta gente apre un blog (oddio, ora sempre meno, casomai apre un account su Facebook, che non è esattamente la stessa cosa) per scriverci prima un post alla settimana, poi uno al mese, poi basta perché gli è venuto a noia.

Ecco, penso che ho fatto proprio una buona cosa e che, come dice Lino (tra i miei lettori più cari e affezionati) sono proprio “un bel ganzo”. Forse.

L’inno del corpo sciolto

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water

E’ successo nella scuola in cui lavoro:

un alunno chiede il permesso di andare in bagno, lo ottiene e una volta lì fa quello che deve fare. O meglio, lo fa ma decide, già che c’è, di imbrattare -non si sa con quali acrobazie ginniche- il bordo del water e le pareti intorno. Risultato: un merdaio stratosferico che il Nostro, evidentemente orgoglioso di aver fatto la cazzata dell’anno, decide di fotografare, si sa mai che i posteri non abbiano a ricordarlo proprio per quello che già considera il suo capolavoro assoluto.
E infatti manda la fotografia ad alcuni dei suoi contatti su WhatsApp: facile, veloce, e certamente più pulito dello stercolàio di cui sopra. Solo che uno di questi destinatari ha, anche lui, una illuminazione geniale assoluta: questo prezioso materiale iconografico non può restarsene così, a essere guardato solo da sette o otto persone, silente e maleodorante per conto suo, no, deve essere per forza (o per amore, si veda il caso) guardato e annusato dal pubblico di Facebook e per permetterlo non si accontenta, no, di infilare la fotografia nel suo profilo personale, ma ci “tagga” anche la pagina FB della scuola. Ci mette, di contorno, due o tre frasette così, tanto per fare ed il gioco è fatto.

Perché ormai non ci si accontenta più di fare le cazzate fini a loro stesse, no, non si sta bene neanche a chiacchierarne tra pochi intimi, come si faceva una volta che si andava a scambiare quattro ciacolade sulle proprie bravate al bar, adesso le cazzate non sono autenticamente cazzate se non le fai coram populo, davanti a tutti, anzi, più persone ti vedono, che in quel momento stai facendo una cazzata, più sei contento. E non importa che si parli male di te o ti si dica che stavolta hai proprio esagerato, no, l’unità di misura della portata delle proprie azioni sono i “like”, che amplificano la portata dell’attenzione su un cesso intasato in un bagno scolastico di provincia. Bisogna essere come minimo “virali” (come si dice oggi utilizzando un termine orrendo) e contagiare, smerdandolo, anche l’ignaro visitatore che si trova a passare di lì per caso.

Senza contare che tutto ciò che è virale non è solo una malattia. Peccato che lo si usi per apparire agli occhi della gente come infinitamente sprovveduti.

Libertà d’espressione vo’ cercando

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Un'immagine di Gabriele del Grande tratta da Wikipedia

Un’immagine di Gabriele del Grande tratta da Wikipedia

A me il 25 aprile è sempre piaciuto.

Sarà perché, da che io ricordi, c’è sempre stata un’aria primaverile e friccicarella. O perché il 25 aprile ti accorgi che è giusto cantare “Bella ciao” a Adele Marie (ah, Adele Marie è mia figlia, ha un anno!) che batte le manine anche se non sa perché. O anche perché è il compleanno di valeriodistefano.com ed è una data che ti ricorda che bene o male qualcosa di buono l’hai fatto e che il blog è ancora in piedi (anche se i soliti paladini delle libertà hanno tentato di sparargli alle gambe).

Insomma, mi piace l’idea di avere una Liberazione con la maiuscola da ricordare e di essere una persona libera grazie al sacrificio di tanti che adesso non ci sono più (“e questo è il fiore/del partigiano/morto per la li-ber-tà”).

Poi oggi è anche bello festeggiare un’altra liberazione (con la minuscola, stavolta, ma non meno importante), quella di Gabriele Del Grande dalle carceri della Turchia, dove qualcuno cercava evidentemente di raggiungere qualcosa di più prezioso della sua libertà personale, la sua libertà di opinione, di critica e di denuncia (se no non lo avrebbero tenuto una dozzina di giorni recluso senza nemmeno la formulazione di un capo di imputazione).

Perché oggi ci teniamo un po’ tutti di più alla libertà di dire, di esprimersi, di parlare, di criticare, magari anche di sbeffeggiare e di fare satira. Però poi domani ricominciamo tutti a prenderela con quel giornale che ha pubblicato quelle cose che non ci stanno bene, con quell'”amico” di Facebook che ci ha “imbrattato” la bacheca delle sue opinioni politiche, no, ma come si permette, una bacheca così onorata, ricominceremo con le sempiterne solfe del “ma Lei non sa chi sono io, badi a come parla, io la querelo!”

Nulla di nuovo. Se solo non ricordassimo (e nonce lo ricordiamo!) che quello che siamo lo dobbiamo proprio al 25 aprile: bentornato Gabriele (e Adele Marie batte ancora le manine).

Le balene restino sedute

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bw

E allora non si fa altro che parlare di Blue Whale. La gente è scandalizzata ma non ancora sufficientemente schifata, evidentemente. Non si è ancora arrivati a toccare il fondo di una realtà fin troppo orribile di per sé. La guardiamo, ce ne distacchiamo, rimaniamo orripilati ma ci limitiamo a quello. In fondo ce lo fanno passare solo per un “gioco”. Un gioco, sì, uno di quelli ollàin, di quelli che fanno tendenza, di quelli che fanno figo, inventato da un delinquente che adesso è in galera e che non si pente minimamente del suo gesto, anzi, lui dice di aver ripulito la società dai parassiti (vedi giudizio human come spess’erra?), un gioco che in cinquanta mosse porta i partecipanti minorenni al suicidio, a buttarsi dall’ultimo piano del palazzo più alto della città, attraverso notti insonni passate a guardare film horror, ad ascoltare musica deprimente, a vedersi manipolare il cervello fino a ridurselo in pappa duttile e malleabile, a incidersi sul corpo vari disegni facendosi del male senza nessun altro scopo che arrivare alla soluzione finale, cazzo quello non è un gioco. Quella è una roba che bisogna identificare i responsabili e punirli duramente, non ci son Cristi che tengano. E’ successo a Livorno, mica cazzi, che un ragazzino di 15 anni si sia buttato giù dal grattacielo di piazza Roma (Piazza Matteotti) al culmine del suo percorso di “gioco”.Ti danno una specie di “tutor” che ogni giorno ti rende edotto sulla cazzata che devi fare e tu la fai. Fino ad arrivare al cinquantesimo giorno in cui te ne vai. Semplicemente. Però hai almeno la soddisfazione che qualcuno ti riprende mentre fai il volo finale e pubblica il video su Facebook o su qualche altra baggianata di social networking, vaffanculo, gliela darei io a loro la soddisfazione. C’è una ragazzina che abita nel pescarese che è arrivata a un passo dal cinquantesimo giorno, l’hanno presa per i capelli e ricoverata nel reparto di Neuropsichiatria infantile di un ospedale nell’anconetano. Ha solo 13 anni, cazzo, e allora questi stronzi sì che ci si sanno mettere con i più deboli, con chi aderisce al programma di morte solo perché vuole provare qualcosa di forte, perché vuole sentirsi figo/a e perché la vita di tutti i giorni, evidentemente, non è abbastanza interessante, cazzo ci avranno nella testa anche questi ragazzini lo sa solo il padreterno. Su un sito denominato “cronacheancora.it” leggo che “Non è escluso che parta un’indagine…”. Minchia, “non è escluso”? Ma l’indagine la devono fare e subito, altro che “non è escluso”! E sono storie così, a distrarci schifati ogni giorno. “Sì, è terribile, ma non ci si può far niente, è la tecnologia, questi ragazzini sono malati, stanno sempre accanto al  loro cellulare (e tu tògliglielo, contròllaglielo, fai qualcosa, pirla!), non si sa che cosa ci facciano (e prendersela un po’ con la nonna o con la zia che glielo ha regalato nel giorno della sua prima santa Comunione no, eh??), il mestiere di genitore è difficile (cazzo, ma te ne accorgi se tuo figlio ha dei tagli sulle braccia o sul resto del corpo, o vuoi dirmi che non vedi mai tuo/a figlio/a nudo??), però è certamente orribile, sissì…, ora scusate ma mi è arrivato un tweet!”Perché in fondo in fondo è solo un “gioco”, vero?

Roseto: il culo come volontà e rappresentazione

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aloisi

Un culo è un culo. E un culo che sia un culo si chiama “culo” proprio perché è un culo. Non si chiama “lato B” o “le terga”. O “sedere”, giusto per addolcire.

Ciò premesso, accade anche in questa Roseto, piccolo mondo di un mondo picccolo come la chiamerebbe Giovannino Guareschi, in questa ridente cittadina che sempre meno ha da ridere, che un consigliere comunale, nonché segretario locale del PD, tale Simone Aloisi posti (“un po’ per celia un po’ per non morir”, direbbe la Butterfly) su Facebook un selfie che lo ritrae sdraiato su un lettino, con accanto un culo femminile altrove definito “scultoreo” (per noi è un culo e basta). Pochi minuti e il popolo di Facebook, che, si sa, è implacabile sia quando dà dei giudizi positivi che quando dà dei giudizi negativi, si è tuffato a mani basse a difendere il consigliere comunale, oppure a stigmatizzare il contenuto sessista dell’immagine. Alla fine le spiegazioni di Aloisi: “Noto che da uno scherzo tra amici si è scatenato un polverone più grande del previsto, ovviamente chiedo scusa se ho potuto urtare la sensibilità di qualcuno ma di certo non era questa la mia intenzione, è chiara una cosa: il mio ruolo mi impone di mantenere un certo self-control, da oggi in poi cercherò di ricordarmelo. Non ho intenzione di cambiare per colpa della politica, continuerò a scherzare come ho sempre fatto”. Insomma, scherzava e poi, come spessso succede, il gioco gli è sfuggito di mano. Tanto che, adesso, pentito, il post è stato rimosso dal suo profilo Facebook (già, ma se scherzava e se non trova nulla di male in quello che ha fatto perché non l’ha lasciato?).

Fin qui i fatti. Per carità, può capitare a tutti “un momento di fosforescenza” (come scriveva Eduardo De Filippo in “Napoli Milionaria”) e di goliardia senza freni. E, in fondo, dicevamo, non c’è proprio nulla di male in quello che ha fatto l’esponente locale del PD. Già, è vero: non c’è niente di male. Ma non c’è nemmeno niente di bene. Voglio dire, che valore ha una azione di questo genere? Nessuno. Non è una cosa morale o immorale, no, è una cosa del tutto a-morale, che non ha un perché, non ha una causa, non ha una spinta all’origine, non ha niente di niente se non l’effetto dirompente di provocare delle reazioni (ma, in fondo, mi viene da pensare che la bravata sia stata organizzata a bella posta proprio per questo, per vedere di nascosto l’effetto che fa). In fondo tra fotografarsi con un culo a fianco e andare in giro vestite di tutto punto, attopatissime, con un tacco veriginoso, l’andatura ancheggiante e il seno strippato al punto di esplodere, non c’è molta differenza. Tutti e due gli atti hanno un solo scopo finale: quello di essere guardati.

E allora scatta la domanda successiva: cosa me ne frega a me di con chi vai a trascorrere una giornatina sul mare e se questa amica ha, per inciso, un gran bel culo? Ma saranno ben affari tuoi e del tuo privato. Io cosa c’entro? Io mi trovavo su Facebook a leggere il tuo profilo perché, oltretutto, c’è la non piccola discriminante che sei un personaggio pubblico. Tutto lì. Invece mi ritrovo questo cupolone che non dice nient’altro che “Guardami, sono qui.” Va bene, lo vedo che ci sei, e allora?? Niente, nessuna risposta oltre alla mera e banale constatazione dell’esistenza.

La rete, per fortuna, ha la memoria lunga. Ma anche i rosetani che vanno a votare a volte non scherzano.

 

A distanza di pochi minuti dalla messa in linea di questo articolo, l’amico Pasquale Bruno Avolio mi comunica che il post originale non è stato rimosso da Facebook (grazie, prendo atto e correggo) e che la proprietaria del culo ha rivelato coram populo la sua identità. Prendo atto anche di questo e mi nauseo.

Checkpoint Charlie

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charlie

Comunque sia, l’autorizzazione a staccare la spina al piccolo Charlie è arrivata.

Istintivamente mi viene da rifiutare la logica perversa di una ragione di Stato (o di Stati) che stabilisce con una sentenza la morte di una persona che non può difendersi. Ed è uno di quei casi in cui l’istinto, l’animalità, la rabbia vincono sulla ragione, e qualsiasi cosa la ragione dica o affermi, restano lì a dimostrarti che loro ci sono, che tu ci sei, e che questa cosa proprio no, non ti va giù.

In Europa chi vuol morire per mettere fine coscientemente alle proprie irreversibili e indicibili sofferenze deve emigrare in Svizzera (cioè fuori dall’Unione), e chi vuole che il proprio figlio minore continui a vivere, sia pure attaccato a delle macchine, si vede sbattere la porta in faccia.

E, probabilmente, in Italia una cosa del genere non sarebbe mai accaduta. E non solo perché siamo (ed è vero) una nazione di bigotti, molto affezionata alla presenza del Papa sul proprio territorio, per cui affiliamo tutti quanti il nostro Facebook per scrivere commossi, nel momento in cui Charlie morirà (perché morirà, quasto è certo) per scrivere “Addio, eri un angelo, proteggici da lassù” (fa tanto nazional-popopolar-chic una cosa del genere!), no, non sarebbe mai successa perché abbiamo un diritto che continua a garantire alla volontà dei genitori di un minore un valore superiore, in mancanza di chiare leggi sul tema. Perché, se non ve lo siete ancora dimenticati, nel caso di un minore sono i genitori che decidono. Sempre. O che dovrebbero sempre decidere (stiamo anche noi andando alla deriva con uno stato che impone dodici vaccinazioni obbligatorie e una Costituzione che continua a stabilire che siamo padroni di accettare o rifiutare qualsiasi tipo di terapia). Punto. E se i genitori di Charlie se la sentono di accudire il bambino, tenerlo con loro vita natural durante (sottolineo “natural”, quella vita legata alle condizioni normali di vita, garantite magari anche da macchinari), se pensano che quella vita è vita e vale la pena comunque di essere vissuta, non si vede perché non debbano veder riconosciuta la loro volontà, che è quella di genitori di un minore che per età e per condizioni non può determinarsi autonomamente.

Di più: Charlie è un “checkpoint”, un punto di controllo per le nostre coscienze, chiamate a uscire dallo stato sonnacchioso e quasi comatoso della quotidianità, e a dare una risposta a una Unione Europea che non accetta stati che abbiano in vigore la pena di morte ma poi stabilisce il dovere di morire e non il diritto alla vita. Che esiste, è vero, autentico, e disponibile per tutti.

Aspetto cordialmente i vostri sputi. Sian benedetti.

Massimo Corsaro a Emanuele Fiano: “le sopracciglia le porta per coprire i segni della circoncisione”

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corsaro

E’ una storia di ordinario parlamento. Massimo Corsaro, Gruppo Misto, manda un commento via Facebook con cui ha insultato ed attaccato il deputato del PD Emanuele Fiano, reo di essere il primo firmatario di una proposta di legge che tende a (re)introdurre i reati di apologia di fascismo (come il saluto romano, ad esempio), una delle poche cose buone che stia facendo il PD -e dàgli e dàgli ci è riuscito- fino ad ora. Il commento recita: “Che poi, le sopracciglia le porta così per coprire i segni della circoncisione…” ed è un chiaro riferimento all’appartenenza culturale e religiosa di Fiano.

Ora, e qui non ci son storie, l’insulto al credo (religioso, filosofico, morale, culturale o politico) inteso ad attaccare la persona è sempre da condannare, proprio perché esula dalle questioni di merito e va a finire su caratteristiche della persona che nulla o quasi dovrebbero avere a che fare con la discussione, ammesso che di discussione, a questo punto, si possa parlare.

Poi se ne esce Renzi tutto pomposo con un tweet in cui lancia l’hashtag #iostoconlele chiedendo contemporaneamente le dimissioni di Corsaro (dimissioni che, naturalmente, sa già che non potrà mai ottenere): da qui la tendenza modaiola-piddina dell’emulazione l’ha fatta da padrona. Tutti i pezzi grossi del Partito hanno scritto parole di comprensibile solidarietà, solidarietà che è arrivata anche da personaggi fuori dal PD come lo stesso Marco Cappato, recentemente rinviato a giudizio per l’aiuto al suicidio di Dj Fabo. Bene. Voglio dire, prevedibile ma bene. Un po’ patetica la scia di emulatori del capo che, come il pifferaio di Hammelin, ha tirato fuori lo zufolo e loro a corrergli dietro incantati come tanti topolini al seguito, ma va ancora bene.

Ce ne fosse UNO, dico UNO che abbia chiesto a Emanuele Fiano di fare una cosa semplice e certamente alla sua immediata portata: querelare Massimo Corsaro. Sono tutti e due partlamentari della Repubblica e hanno tutti i mezzi (non solo economici, voglio dire) per poterlo fare. Perché la solidarietà a colpi di hashtag non basta. Non può e non deve bastare. In un contesto in cui si legifera, certe questioni personali vanno risolte a fil di legge, se no è sempre il solito dài, vieni qui, fatti abbracciare, ma com’è successso, oh, ma che cose orribili che ha detto, hai tutta la mia solidarietà, sei un grande, sei un mito, vai avanti così, tè, ciapa sü…

Perché è chiaro, è tutto “raccapricciante”, “doloroso”, “vergognoso”, un “gesto senza scusanti”, “volgare”, “disgustoso”, ma una volta che si è detto e si è stabilito questo che si fa? Benissimo, è solo Emanuele Fiano che può decidere se querelare o no chi l’ha offeso e nessun altro al di fuori di lui è può darsi benissimo che la sua risposta (rispettabile) a tutto questo sia mettersi a lavorare al progetto di legge contro l’apologia di fascismo, magari lontano da tutto questo chiasso che si sta facendo contro la sua persona. Rispettabile, anche se non condivisibile. Ma l’episodio mi ricorda il caso di Laura Boldrini che per rispondere ad alcuni insulti ricevuti su Facebook li mise in prima pagina per mostrare quanto crudele fosse la gente. E sinceramente non vorrei che questa logica perdente avesse a ripetersi. Sarebbe veramente troppo.


Storia breve della Graziella sull’Autostrada e del poliziotto che finì sospeso

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Sulla Torino-Bardonecchia un extracomunitario è stato fermato mentre stava procedendo in bicicletta. Il poliziotto che lo ha fermato lo ha ripreso in un filmato della durata di 51 secondi in cui si sentono, tra le altre, queste parole che riporto così come le ho trovate sul sito della agenzia ANSA (toh, poi dite che non vi dico le fonti di quello che scrivo!): “Risorse della Boldrini, ecco come finirà l’Italia: tutti su una Graziella in autostrada a comandare” “Voi che amate la Boldrini, voi che avete voluto questa gente di m… in Italia. Goditi questo panorama. Voi e tutta la Caserma: guardate qui. Un tipo che pedala sulla Graziella pensando che sia una strada normale, con le cuffiette in testa. Fosse arrivato un camion e gli avesse suonato, manco se ne sarebbe accorto. Condividete signori, condividete”. Lo hanno più che giustamente sospeso dal servizio. Nonostante questo sulle pagine dei quotidiani nazionali, sui forum, su Facebook, Twitter e quant’altro, che hanno riportato, rimbalzandola, la notizia ci sono opinioni, commenti e tweet di tenore sentitamente opposto. Cioè, per i lettori, il poliziotto non solo avrebbe fatto bene a dire quello che ha detto e fare quello che ha fatto (incluso l’insulto a un’alta carica dello Stato) ma che avrebbe dovuto meritare addirittura un encomio.

La notizia ormai è vecchia, ma i commenti restano sempre lì a dimostrare che gli hashtag #iostocon… sono in agguato, e che noi siamo un popolo in cui la normalità si è ormai definitivamente persa. Voglio dire, che un poliziotto che invece di reprimere un comportamento illecito e pericoloso, come quello di andare in bicicletta in autostrada, gioca a fare Spielberg creando un video per la diffusione a una serie indeterminata di soggetti, in cui getta discredito sulle più alte cariche dello Stato (dimostrando di non saper distinguere tra la carica in sé e la persona che quella carica ricopre), poi è normale che venga sospeso. Ma me lo aspetto che venga sospeso. Perché la normalità è questa. Se ti permetti queste uscite mentre sei in servizio, a svolgere una funzione per la quale sei pagato coi soldini di tutti il minimo che possa pioverti addosso è una bella lavata di capo dai superiori. E non c’entra niente la libertà di opinione che sarebbe andata a sparire. Quella ce l’hai sempre e comunque, il web è pieno di dipendenti pubblici che hanno il loro blog, la loro chat list, la loro pagina Facebook e il loro account Twitter. Ma un’offesa è un’offesa, e questa fiumana di gente che batte le manine perché le piace stare dalla parte di chi fa le spalle larghe pare non l’abbia nemmeno tenuto in considerazione. Ma davvero che cosa pensava la gente, che gli regalassero una medaglia al valore?

Il web è diventato questa tragica desolazione, lo sfogatoio di gente che non sapendo di non aver ragione non sa più dove andare a dire ciò che pensa, “tanto sul web si può”, “tanto in rete è tutto permesso”, “tanto siamo su Facebook, mica nessuno mi farà qualcosa”, “ma no, dài non succede niente”.

E’ vero, non succede niente. Finché non succede qualcosa.

Quella volta che Facebook mi bloccò l’account (ieri)

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Sono stato per tre giorni in Francia, in un villaggio piccolissimo che avrà sì e no 350 abitanti in tutto e in cui non c’è nulla, ma proprio nulla. Né un chiosco di giornali, né un bar, né un supermercato, né un negozio di qualsivoglia specie. Nulla di nulla. Solo un distributore automatico di baguettes gestito da una boulangerie del paese vicino (ah, ces diables de français…).

Ma internet ci arriva, e funziona, da quel poco o pochissimo che ho potuto vedere, piuttosto bene per le esigenze di un utente medio qualunque.

Ho avuto l’opportunità di farmi prestare un computer portatile collegato al wi-fi di una casa privata. Ho dato la solita occhiata ai miei siti (stanno bene, grazie), alla mia e-mail, ho fatto una ricarica telefonica (non per me, che avevo dimenticato il cellulare sul comodino del letto, ma questa è una storia che vi racconto a parte) e sono andato a vedere prima Twitter (stava bene anche lui) e poi Facebook. E qui sono cominciate le magagne.

In pratica Facebook ha visto che qualcuno si stava collegando al mio account da un computer non italiano (orrore!!) e con un browser inconsueto (terrore e disonore!!). Hanno fatto due più due e hanno pensato “Ahah!! Questo è sicuramente un tentativo di hacking, adesso i solerti 007 di Zuckerbourg, lì, bloccheranno il problema alla radice. E mi hanno sospeso l’account. Cazzo, ma una imbecillata più imbecille non la sapete inventare?? Sono rimasto, dunque, senza Facebook per un giorno. Fino a quando, cioè, sono tornato a casa, ho preso il mio telefono (che era sempre lì sul comodino ma, ve l’ho detto, questa ve la racconto a parte) e mi sono collegato. Mi hanno detto che l’acconto era stato bloccato perché un maramaldo (che poi sarei io) ha cercato di intrufolarvisi dentro dalla Francia. Evviva! Ora, vi immaginate se tutti i fornitori di servizi usassero questa politica? Uno non potrebbe più mandare una mail da un posto che non sia la sua residena abituale, collegarsi alla propria banca per consultare gli estratti conto o i movimenti della propria carta di credito, disporre operazioni di transazione, spedire una raccomandata on line. E’ una logica perdente: è il mio account che mi segue, mica io che devo andargli dietro collegandomi da dove gli pare a lui!

Questo è successo. Il pensiero è sempre il solito: essere il più possibile indipendenti in internet paga e se ci si affida a Facebook ci si ritrova prima o poi ad avere grane che non si sono andate a cercare. Sarebbe meglio evitare. Ma ormai ci sono invischiato come una mosca nel miele.

Il Fatto Quotidiano e le beghine di Facebook

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Qualche giorno fa sulla  versione on line del Fatto Quotidiano è apparsa questa vignetta di Mario Natangelo su Maria Elena Boschi.

Dico subito che non è un gran che. Fa ridere poco (tutt’al più ti strappa un sorrisetto striminzito) e si vede che l’autore non era in vena quando l’ha realizzata. Ma, anche a prima vista, è e rimane quello che è, una vignetta satirica. Punto.

Invece su Facebook l’altro giorno è stato il dies a quo della levata di scudi da parte dei filo-piddini. “Hai visto?” “Oh, sì, che gusto pessimo” “Ma davvero non si può vedere” “Che schifo!” “Sì, e poi è sessista”, il tutto in un cicaleccio da pomeriggio di agosto di signore che vanno a mettere i piedi nell’acqua di mare per rimediarsi un po’ di refrigerio.

Ecco, la gente ha paura della satira. Come se non fosse mai esistito il ridere sui potenti e sui politicanti. Quello che dà fastidio è vedere una donnina stilizzata, neanche poi tanto somigliante, con la gonna alzata (mentre per certi ambienti della sinistra dabbene era d’obbligo gridare “Il re e nudo!”, alludendo ad altre e più imbarazzanti vergogne) rappresentare per contrasto l’immagine angelicata che la ex ministro dà di sé. Siccome abbiamo un “textus receptus”, cioè una tradizione di immagine della Boschi, automaticamente non dovremmo potercela nemmeno immaginare un po’ svestita e ignudarella. Non si fa. Non si ride di chi ci governa. Soprattutto se chi ci governa forma parte del partito amico.

E’ stata una fiammata di commenti buonisti e piccosi durata appena un giorno (L’acrimonia su Facebook, spessso ha vita breve) ma è stata rivelatrice del dove stiamo andando e di dove, tristemente, siamo.

Docenti che “amano” le loro alunne

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I quotidiani non fanno che parlare di docenti che “amano” le loro alunne.

Il verbo “amano” si intende in senso puramente sarcastico e distaccato. Non le amano affatto, in realtà. Approfittano del loro ruolo di educatori dei nostri stivali per circuire ragazzine minorenni (ma anche se fossero maggiorenni la cosa non cambierebbe di una virgola), mandare loro SMS e messaggi sconci via WhatsApp quando va bene, o intrattenere laide relazioni sessuali con loro quando proprio si arriva al limite del sopportabile. Vladimir Nabokov aveva descritto tutto questo in “Lolita”, ma quello era un romanzo, mentre questa è realtà quotidiana e, si sa, i giornali amano rimestrare nel torbido.

Intendiamoci bene, per questi individui ci sono il licenziamento in tronco e la galera. Senza attenuanti e senza scuse. Non è che “sentirsi dire micio bello e bamboccione” da una ragazzina, farsi mandare delle fotine in cui l’amata fa delle cosine fuori dalla grazia di Dio, sia una roba che ha costo zero. I rischi ci sono e sono reali anche quelli, non è che sottovalutandoli li esorcizzi, e approfittarsi della fragilità psicologica di un minore è roba da infami.

Ma in sede di rinnovo del contratto di lavoro per gli insegnanti (il precedente contratto è scaduto 9 anni fa, è bello vedere come si agisce con celerità quando si tratta di diritti e doveri da codificare) si è pensato bene di estrarre il classico coniglio dal cilindro, di trovare la figata pazzesca, l’idea che risolve tutti i problemi: aggiungere al contratto una sorta di decalogo per la deontologia professionale, in cui sia inserita una norma che impedisca agli insegnanti di avere contatti via SMS, Facebook, WhatsApp, Instagram e chissà quante altre diavolerie, che non siano strettamente necessari per la didattica. Cioè praticamente tutti.

Non so se questi signori addetti alla compilazione delle nuove norme, con una sfilza di prèsidi lancia in resta, hanno mai avuto a che fare da vicino con i fanciulli di oggi, ma è certo che la trovata istrionica di vietare contatti telematici dimostra la scarza aderenza delle norme con la realtà scolastica. I ragazzi ti guardano dappertutto. Sul telefonino (possono avere il tuo numero di telefono per decine di migliaia di motivi, io un anno lo diedi per gestirmi la mia ora di ricevimento settimanale e ogni tanto mi arrivavano messaggi per la buonanotte, Forza Juve, prof ma domani abbiamo il kompito?, ennò che non ho studiato), su Facebook (conosco decine di insegnanti che hanno tra le loro “amicizie” di Facebook decine e decine di alunni minorenni che “sì, ma io lo faccio solo per farmi mandare le faccine, i gattini, i bacini, le stelline”, sì però intanto ce li hai e lì restano), su WhatsApp (così ti mandano i messaggi e, stronzetti, controllano anche se e quando li leggi, poi non contenti si incazzano anche se non gli rispondi), su Twitter (ho un alunno che mi mette i cuoricini su tutti i post che faccio, anche su quelli di cui non capisce nulla, poi viene in classe e mi chiede chi era Peppino Impastato, eh, ci vorrebbero delle mezze giornate per spiegarlo, altro che un’oretta striminzita in cui, comunque, dovrei fare anche altro), su Instagram (e qui mi fermo perché non ho Instagram e non mi interessa averlo, ma so che di danni ne fa abbastanza anche lui). Coi ragazzi puoi avere un rapporto simpatico e cordiale. Ti può capitare di dire loro per quale squadra tifi e loro, implacabili con i loro telefoni mezzi sgangherati, ti scrivono per dirti “Ahahahahahahah, oggi avete perso” -ah sì? E dire che io non me ne ero nemmeno accorto-). E poi ci sono le cose più delicate. Un insegnante non è una persona che si limita a entrare in un’aula, fare un’ora di lezione, uscire e resettare i sentimenti, spesso è una sorta di confessore, di psicologo ambulante, le ragazzine (soprattutto loro, ma anche i ragazzi ultimamente sono più aperti da questo punto di vista) ti parlano di loro, dei loro amori, delle loro speranze, delle loro illusioni. “Aiuto, Profe, mi ha mandato un messaggio che non vuole vedermi più, che faccio??”

Tutto questo, se venisse approvata la soluzione proposta, costerà fino al licenziamento, in barba alla libertà di corrispondenza garantita a ogni cittadino, e senza minimamente passare per un giudice ordinario (del lavoro o no che sia). I reati sono reati, e per quelli ci sono la magistratura e il carcere (anche preventivo). Ma se io non commetto nessun reato io comunico con chi mi pare. Minorenne o maggiorenne che sia. Senza limitazioni di sorta. E invece tutti colpevoli potenziali per colpa di qualche colpevole reale. E poi ce li voglio vedere i prèsidi a comminare sanzioni ai loro professori perché si sono scambiati la schedina con i loro alunni e questo non rientra nel novero del didactically correct.

Disgusto.

Lavinia Flavia Cassaro: oltraggio a pubblico ufficiale

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lavinia

Qualcuno mi ha chiesto che cosa io ne pensi del caso di Lavinia Flavia Cassaro, l’insegnante di Torino che ha insultato i poliziotti posti a guardia della manifestazione di Casapound. Cosa volete che vi dica? Che credo nello stato di diritto, per cui se ci sono reati deve essere indagata (e lo è già), i fatti accertati e perseguiti, condannata se colpevole, assolta se i fatti non costituiscono reato. Quanto al licenziamento ci sono leggi e regole precise, se il caso ci ricade va allontanata, se no deve essere mantenuta, anche se non ci piace quello che ha detto.

E’ talmente lampante che mi vergogno persino a scriverlo. Eppure si dà il caso che ieri, sul periodico online torinotoday.it sia apparsa la notizia dell’esistenza di una petizione a favore del licenziamento della Cassaro, lanciata su Facebook.

Non ho voglia di andare su Facebook a vedere cosa sia successo (“non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade”, diceva il poeta) ma mi preoccupa non poco questo linciaggio telematico, questa voglia di darle addosso a tutti i costi e di decidere al posto di chi deve decidere. Leggo sigle di partitini (la cui esistenza mi sconvolge un po’ l’animo) a sostegno di questa iniziativa e no, non si viene licenziati perché lo vuole la gente, altrimenti il web sarebbe pieno di petizioni. E una volta che uno ha “firmato”, lasciando un segno digitale sulla home page dell’iniziativa, a chi vanno consegnate le firme? Ai magistrati?? Una strategia che fa acqua da tutte le parti. Eppure è così, si viene giudicati prima ancora di essere giudicati. E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

Paolo Attivissimo mi ha censurato. Vittoria su tutti i fronti!

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disinformatico

Sono stato per anni un grande fan di Paolo Attivissimo.

Di lui mi piacevano la chiarezza espositiva, l’innegabile capacità di fare divulgazione e un sottile sense of humor che non guastava mai. Una volta, mi ricordo, spesi 42000 lire per il suo libro “Da Windows a Linux”. Mi sembrarono un bòtto allora e mi sembrano un bòtto ancora oggi. Ma ho come attenuante il fatto che allora fossi molto giovane (e scemo).

Ultimamente, però, trovo che abbia pisciato fuori dal vaso diverse volte. Ho provato a farglielo notare con tutti i mezzi, dai più delicati ai più virulenti, ma non c’è stato verso. Fino a che non ha censurato un mio commento sul suo blog (sì, avete letto bene) e mi ha impedito l’accesso ai suoi post su Twitter (sì, avete letto ancora bene).

Chiarito che considero la censura di Paolo Attivissimo alla stregua di una medaglia al valore lasciate che vi spieghi tutto da principio:

Attivissimo, sul suo blog, si è offerto di fare operazione di debunking di un film “lunacomplottista” (è nota l’avversione di Attivissimo per i complottisti, ma questi sono esclusivamente fatti suoi), per l’esattezza “American Moon” di Massimo Mazzucco, dietro donazione volontaria di una cifra (non prestabilita) di denaro a favore di Medici Senza Frontiere. Ho fatto presente a Paolo Attivissimo che su una pagina del Corriere si evince che l’associazione ha ammesso 24 casi di molestie e abusi sessuali al proprio interno, con 146 denunce e 19 licenziamenti. Apriti cielo e spalancati terra! Risponde Attivissimo: “E quindi? Vogliamo tirar letame anche addosso a tutti i loro membri onesti che curano malattie a migliaia di persone in condizioni spaventose?” Che, voglio dire, vista così non è che sia una di quelle risposte che ti convincono a primo impatto, perché dànno per scontato il fatto che anche se si è verificato uno scandalo al proprio interno, MSF sia comunque una associazione degna di ricevere delle donazioni. Siccome io la penso in maniera diametralmente opposta, glielo ho fatto presente, ma mi sono sentito dare dell'”attaccabrighe” (beh, sempre meglio che “tirar letame”, anche se ho fatto notare che MSF il letame se l’è tirato addosso da sola, autodenunciandosi per i reati e i fatti già noti in materia sessuale). Perché guai a far notare la verità. E va beh, ho chiesto a Attivissimo se non provasse un po’ di imbarazzo nel richiedere donazioni liberali per il proprio lavoro a favore di un’associazione così vulnerabile dal punto di vista dell’etica, ma non ho ottenuto risposta. O, meglio, l’ho ottenuta, ma non da Attivissimo. Mi ha risposto un suo adepto lettore che non ho ben capito che cosa c’entri, ma va bene anche così, non è detto che si debba sempre essere coerenti nella vita.

Lo scambio di battute è arrivato fino al punto in cui un mio commento (sempre senza insultare nessuno, ma sempre criticando, criticando, criticando -ed è questo che dà fastidio!-) non è stato fatto passare dal fitto colino della moderazione del blog “Disinformatico” (dove, pure, avevo ricevuto serie ininterminabili di rampogne e accidenti vari dalle solite prime damigelle di corte), e, qualche ora dopo, provando ad accedere dal mio account Twitter all’account @disinformatico di Paolo Attivissimo, ecco la risposta:

twitter

Oh, ma questa è proprio una disdetta. E adesso come farò senza i lunacomplottismi del giorno? Facile! Basta disconnettersi da Twitter, cercare con Google la stringa “disinformatico twitter”, cliccare sul primo link dei risultati della ricerca e voilà:

twitterdopo

L’account Twitter è perfettamente leggibile. Poco importa se non potrò dire quel che penso all’autore, ho sempre un blog.

Tra i tweet di Attivissimo che mi piace segnalare c’è questo:

E’ bellissimo perché è di un Kitsch e di un surreale folle (oltre che a produrre un irresistibile umorismo involontario). Dice di Facebook: “Non sei in piazza, dove valgono le leggi: sei in una proprietà privata, dove vale l’arbitrio del padrone di casa.” E dopo 24 ore mi butta fuori. Giuro che se non lo stessi vivendo in prima persona non ci crederei. Perché quando ti impediscono di parlare hai sempre vinto. Non hanno argomenti, non ti attaccano più sulle tue idee ma sul personale. A conclusione di tutto questo, Paolo Attivissimo, sul suo blog, mi ha definito così:

piccolaetriste

Ce n’era bisogno? Era proprio indispensabile?? Io credo di no. Ma il gioco è appena cominciato, e sarà divertentissimo chiosare gli scritti di Attivissimo su questo blog.

Aggiornamento del 20/3: Come ho scritto e dimostrato nell’articolo “Per una disamina del seguace medio di Paolo Attivissimo”, il mio post sul blog “Disinformatico” è stato sbloccato alcune ore più tardi.

Non è Facebook che si fa i cazzi vostri, siete voi che glieli raccontate

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cambridge

Li vedi passeggiare per i bar a ciacciare come forsennati sui loro telefonini, a parlare con gli amici, a passaggiare nervosamente in su e in giù, a twittare, chattare, telefonare e parlare sempre dello steso immarcescibile argomento: “Cosa fare adesso che Cambridge Analytica ha fatto esplodere l’effetto Facebook e ha rivelato che cosa è disposto a fare Zuk… Zik… Zak… sì, insomma, lui, con i nostri dati, quelli che gli conferiamo quotidianamente a ballini interi.

Perché la gentre si è svegliata adesso. Fino ad ora tutti erano impegnati a mandarsi i gattini in linea, i cuoricini, le ricette, le fotografie del dolce fatto la domenica, le foto dei propri figli minori di età (bel problema anche quello lì), gli apprezzamenti (“Oh, come sei bella!” “No, figurati, sei più bella tu!!”), le foto delle scarpine nuove ai piedi, e le dichiarazioni di voto in politica. Adesso, e solo adesso, lo ripeto, questa gente si sveglia, e scopre che Facebook fa un uso distorto di tutte queste informazioni. No, dico, ma PRIMA, questa gente, dov’era??

E perché oggi si fa tanto un pubblicare frenetico di istruzioni sul come disiscriversi da Facebook, quando un articolo pubblicato sul “Fatto Quotidiano” di domentica scorsa metteva in rilievo i pericoli dell’essere iscritti a Twitter, Amazon, Instagram e quant’altro? E’ fatta così la gente. Vuole scappare da Facebook e poi sul telefonino ha WhatsApp che è della stessa proprietà e traccia i profili degli utenti a seconda delle telefonate che fanno (a chi le fanno, quali amici hanno, chi sono i propri contatti in rubrica, chi quelli occasionali e viandare).

Io? Io sono nella merda fino al collo. Ho un blog, un accesso Facebook, WhatsApp sul telefono, Twitter e compro spesso su Amazon. Sono la vittima ideale. Però lo sapevo. E ho accettato il rischio. Chiudere la stalla quando i buoi son scappati mi sembra oltremodo puerile e poco conveniente.

E nessuno che abbia (ancora) capito che in tutto questo gratuito ostentato, il vero prezzo da pagare siamo noi stessi.


Disabilitati i commenti da valeriodistefano.com

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Sentite, lo so che queste notizie ve le do con il contagocce, ma non è colpa mia se le cose capitano una dietro l’altra e dovrò pure informarvi anche se non ve ne frega niente di quello che dico.

Dal 15 maggio entrerà in vigore una nuova normativa europea in tema di privacy. Non ho avuto tempo nè modo di leggerla o di approfindirla, ma pare che gli adempimenti per chiunque gestisca un sito web siano molti. Siccome ho molte cose da fare (e non sto a dettagliarvi quali) non ho né tempo né voglia di adeguarmi a questa normativa solo per il fatto di detenere gli indirizzi IP e gli indirizzo e-mail di chi commenta, quindi a partire da subito i commenti WordPress e quelli da Facebook sono stati disabilitati dalle pagine del blog. Da qui al 15 maggio cancellerò tutti i commenti ricevuti fin qui (ma sì, anche quelli in cui sono stato pesantemente insultato, che erano così carini!) e spero di poter vivere un po’ in pace, senza dovermi stare a sbattere ogni giorno per il solo fatto di gestire un blog, cioè uno spazio in cui io esprimo delle opinioni, e che tale dovrebbe rimanere, anche in termini di tempi da dedicargli. E’ una questione meramente economica: se non ho tempo da dedicare allo scrivere i post perché questo tempo viene completamente assorbito dagli adempimenti sulla privacy, che razza di senso ha tutto questo?

E lo so (non venite quindi a dirmelo) che i commenti sono una parte vitale di un blog, che senza di quelli non c’è il contraddittorio (Dio che razza di palle ‘sto contraddittorio!), che non è democratico parlare senza dare la possibilità di replica, ma diciamoci la verità: questa opportunità (quella di commentare) l’avete usata pochino pochino, e se non intressa a voi esprimere la vostra opinione, figuratevi a me, che, peraltro, la esprimo già.

Quindi silenzio, stringere i denti e viandare.

Per David Puente Pietro Pacciani è il mostro di Firenze

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(screenshot da www.davidpuente.it/blog/)

(screenshot da www.davidpuente.it/blog/)

David Puente è un “blogger”, “laureato in Scienze e Tecnologie Multimediali presso l’Università degli Studi di Udine”, “esperto informatico” e “debunker”. Questo, almeno, quello che si ricava dalle prime sommarie informazioni che si ricevono quando si digita la stringa “David Puente” nel motore di ricerca di Google.

Fa parte del quadriumvirato di persone che facevano da consulenti a Laura Boldrini, quando era ancora Presidente della Camera, per lo smascheramento delle cosiddette “bufale”, o “fake news” che dir si voglia. Oggi, come gli altri tre suoi compagni di viaggio, vive una visibilità istituzionale decisamente più modesta ed isolata.

Quello del “debunker” è un mestiere che va molto di moda. Si tratta di ridare verità a quelle notizie che verità non hanno e ristabilire un principio di realtà dei fatti ch3e altrimenti sfuggirebbe al lettore più disattento, oppure più semplicemente più sprovveduto. Lodevole iniziativa. Per essere un debunker affidabile bisogna essere prima di tutto autorevoli. Non basta, cioè, che quello che si scrive a confutazione di una tesi o di una ipotesi sia vero in sé, bisogna anche essere delle persone credibili, perché se si prende il vizietto, come è già successo, di andare a fare le pulci ai giornali nazionali con maggiore e più ampia diffusione perfino sugli errori di ortografia, poi non ci si può permettere il lusso di sbagliare un verbo in francese dichiarando al contempo un titolo di studio come quello del “diploma in lingue”. E’ già successo e succederà di nuovo. Questo blog è qui anche per segnalarlo (ma non solo).

Ebbene, David Puente, nel suo blog, come vedete nello screenshot, ha “sbugiardato” la paternità di un intervento su Facebook a nome di tal “Matteo Salvini”, che a corredo del suo testo, in cui parla del valore degli anziani nella società italiana attuale, ha messo una foto di Pietro Pacciani, segnalandolo, o dando per scontato che la gente lo valutasse come un umile e innocuo vecchietto, di cui poter andare orgogliosi nelle feste comandate, con cui bere un bicchier di vino o condividere il piacere di una partita a briscola. Puente chiarisce dunque che quel post non proviene da Matteo Salvini quello vero, ma da un account omonimo che non ha il bollino blu (ormai su Facebook ci trattano come le banane Chiquita) e che ha un numero di “like” decisamente basso per trattarsi di un personaggio così popolare.
Solo che nel dirlo, si lascia scappare quanto seque:

Da un bel po’ vedo condiviso lo screenshot di questo post Facebook dove Matteo Salvini avrebbe condiviso la foto di Pacciani (il mostro di Firenze) con evidente apprezzamento:

Dunque, secondo Puente, Pietro Pacciani sarebbe il mostro di Firenze.
Ora, c’è un problema. Non esiste nessuna sentenza definitiva passata in giudicato che stabilisca la responsabilità penale di Pacciani in ordine ai reati che gli sono stati contestati.
Il processo di primo grado finì con una condanna, quello di appello con una assoluzione, poi ci fu il giudizio di Cassazione che rimandò il tutto a un secondo processo di appello da celebrarsi in presenza di alcune testimonianze non acquisite nel procedimento precedente. Ma quel secondo giudizio di appello (che avrebbe dovuto essere confermato, se mai, da un altro secondo e definitivo giudizio di Cassazione) non si celebrò mai per il semplice fatto che Pacciani morì. La morte del presunto “reo” estingue il reato, quindi la colpevolezza di Pacciani resta ancora avvolta nel limbo. Secondo la nostra Costituzione ognuno è innocente fino a sentenza definitiva; la sentenza definitiva non c’è e quindi non si può dire che Pacciani sia il mostro di Firenze. Puente lo dice e pazienza, si assumerà la sua brava responsabilità.

Ma al di là di questo, chi debunka i debunker? (Non guardate me!)

Filippo Nogarin ha perso il privilegio di essere livornese

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nogarin

Filippo Nogarin, sindaco di Livorno, nei giorni scorsi ha perso un bene più che prezioso, la livornesità. Quella che io chiamo, con un latinismo neologistico, la “labronitas”. Ed è quanto di peggio posssa accadere a un livornese o, si veda il caso, a chi Livorno rappresenta con la sua carica elettiva.

Livorno è città di accoglienza da sempre. Non finirò mai di dirlo, a Livorno abbiamo i Valdesi, gli ortodossi, gli ebrei, la comunità olandese, quella inglese, e non so quanti altri rivoli, fiumi, ruscelli di culture diverse che convivono pacificamente nella stessa città, a suon di cacciucco, cinqueccinque e ponci. A Livorno siamo fatti così (o, meglio, lo eravamo fin quando io Livorno la frequentavo più da vicino, adessso, magari, le cose saranno un po’ cambiate anche lì) e quindi un Sindaco che pubblica un post su Facebook in cui scrive che il Porto della città è aperto ad accogliere la nave Aquarius col suo carico di miseria e povertà, e che questa disponibilità all’accoglienza è già stata comunicata al Ministro dei Trasporti e al Presidente della Camera, quel Sindaco, dicevo, non fa altro che compiere, con un gesto di apertura, la volontà di tutti i livornesi. Ed è lui stesso parte della sua città, perché davanti a uno scempio del genere, un livornese non potrebbe fare altro che spalancare le porte e il cuore a chi soffre, e a chi dice che i livornesi per la loro generosità ti metterebbero la casa in capo, con questo gesto rilanciano al raddoppio e in capo ti ci mettono la città intera.

Poi è successo qualcosa. Qualcosa che non sa più di ospitalità e apertura nei confronti di chi ha bisogno, ma che ha il sapore, piuttosto, di opportunismo politico e di fetide alleanze con i partiti più fascistoidi, xenofobi e razzisti del panorama parlamentare: quel post su Facebook è stato eliminato (per fortuna c’è sempre chi ha la buona, anzi, buonissima abitudine di farne uno screenshot). Perché? Perché non era compatibile con la linea generale del governo e in particolare con le trovate del Ministro degli Interni, quindi si torna indietro, non si fa più, tutto cancellato, annullato. Niente più solidarietà, niente più accoglienza, niente più porto aperto, niente più assistenza umana e materiale verso chi ha bisogno. Si torna indietro e ci si libera, così, di quella “labronitas” tanto cara, ma che in casi come questo può costituire un fardello gravissimo da portare.

E i livornesi?? Mah, ai livornesi fondamentalmente gl’importa una sega se il sindaco fa i pastrocchi su Facebook. Quello che duole, e duole molto, è l’opportunità persa di sentirsi ancora città, comunità, unità profonda di culture e spiritualità diverse. Per buttarglielo nel culo ai governanti e a chi li ha votati. E’ per questo che Nogarin dovrebbe solo dare le dimissioni da sindaco di una città che è altro da come si comporta, ma chissà se questo sarà compatibile con i diktat del governo.

Federico Maria Sardelli bannato per un mese da Facebook

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L’altro ieri mi è giunta una notizia che mi ha fatto rimanere un po’ stercofatto o “cacino” per dirla alla livornese. Non è nulla di che. Il Poeta direbbe che “non vale due colonne su un giornale”, ma forse è proprio per questo che la ospito.

Federico Maria Sardelli è stato bannato per un mese da Facebook per via di un contenuto non consono (non si sa bene perché) alla politica di Zuckerbndfg.

Ecco, si riassume il tutto in poche e desolate parole. Il “contenuto” di cui parlo è quello di cui all’immagine che accompagna queste brevi noticine, una sorta di “meme” (parola bruttissima che i Facebookari usano a chilate ogni giorno) e che ha come massimo dell’offensività, se proprio si va a vedere fino in fondo, il termine “babbei”. Sono solo opinioni critiche. Forti? E sia, la critica non guarda mai alla forza con cui sferra il colpo, la critica è tale proprio perché travalica il senso dei fatti. Sono opinioni (e chiunque cliccando sull’immagine per ingrandirla può leggerle a suo bell’agio) di una persona che può permettersi questo ed altro, essendo Federico Maria Sardelli, oltre che un caro ex compagno di scuola (e, conseguentemente, compagno di una vita), un direttore d’orchestra, compositore, disegnatore, vignettista, fine umorista, esperto dell’opera di Vivaldi, filologo musicale, pittore, romanziere. E uno che è tutte queste cose insieme, le sue opinioni politiche può permettersi di dirle su Facebook, fuori da Facebook, in Italia e all’estero.

Ma attenzione, non sono solo l’autorità e l’autorevolezza di qualcuno a renderlo degno di rappresentare il suo pensiero su un mostro informatico come Facebook, quello possono farlo tutti, magari con un séguito minore, ma certamente a buon diritto. Quello che rende l’opera di Sardelli degna di stare dappertutto (e, quindi, anche su Facebook) è il fatto che non contiene assolutamente nessun tipo di linguaggio sconveniente o che travalichi quella che i giuristi chiamerebbero la “continenza”. Insomma, non c’è nulla di male in quello che ha scritto Sardelli, e secondo me su Facebook, dove, peraltro, siamo abituati a ben altre manifestazioni del pensiero e a opere di diffamazione e distruzione sistematica di questo o di quel soggetto, quelle parole e quelle immagini ci potevano stare. Ma Facebook non ragiona come noi. Anzi, probabilmente affida a qualche algoritmo della malora l’analisi complessa di quello che linguisticamente non può essere etichettato né etichettabile e poi tanto qualcuno ne farà le spese. E’ un assurdo macinino che non ha ragioni comprensibili e che, come i “vaghi de caffè” di un famoso sonetto del Belli, ogni tanto trascina a fondo qualche chicco per ridurlo in polvere. Non una polvere fisica, beninteso, ma una polvere destinata a costituire un silenzio forzato e inspiegato (nonché inspiegabile) a chi deve subire una punizione per una supposta stronzata che sa di non aver commesso (e che, in quanto “supposta” possono cacciarsi dove credono meglio).

A Federico Maria Sardelli solo tanta solidarietà e un pizzico di presa per il culo: o cosa pensavi che fosse, Facebook, l’Utopia di Tommaso Moro? Ovvia, giù, un te la piglià’ che fra un mese ce l’arracconti.

Il Ministro del Rancore e lo spazzacorrotti

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C’era una canzone di Renzo Arbore che si intitolava “Je faccio ‘o show”. Non se la ricorda nessuno, ma pazienza. In compenso ieri Salvini lo show lo ha fatto sul serio, aprendo in diretta Facebook, e seguito da 30.000 fans (neanche tantissimi, a dire il vero), il plico proveniente dalla Procura della Repubblica di Palermo e contenente l’informazione di indagine per il reato previsto dall’articolo 605 del codice penale, firmato dal Procuratore in persona Lo Voi e esteso sotto forma di lettera gentile, breve, concisa ma chiara e netta.

Lo show è continuato con il solito attacco alla magistratura, rea soltanto di non essere stata “eletta dal popolo” come lui. Che non è stato nemmeno eletto, ma nominato, come diceva Beppe Grillo quando era ancora vivo. Poi se l’è presa con i suoi tradizionali avversari:  Roberto Saviano, Gad Lerner, Matteo Renzi, Fiorella Mannoia. No, dico, se la è presa con Fiorella Mannoia, quella di pesca forza tira pescatore e dimmi dimmi mio signore. La cantante. Che male può fargli una canzonetta? Non si sa. Ma l'”eletto dal popolo” che spettacoleggia su Facebook ci ricorda da vicino il Berlusconi che, pure, se la prendeva con i magistrati gridando al colpo di stato e all’uso politico della giustizia. Solo che lui non aveva bisogno di Facebook, aveva i giornali e le televisioni per condizionare l’opinione pubblica italiana.

Intanto che Salvini fa ‘o show, il ministro della giustizia Bonafede è orgoglioso del decreto “spazzacorrotti” che sta per essere discusso in Parlamento. Quello che prevede l’istituzione della laida figura del pentito. Perché sarà introdotta una norma che prevederà la non punibilità del corrotto che, dopo essere stato folgorato sulla via di Damasco e una volta pentitosi, si autodenuncia entro sei mesi dal fatto, sempre che non sia stato indagato prima, restituendo il maltolto e dando ampie indicazioni alla magistratura su dove trovare il denaro da restituire. Non si sa che fine faccia il corruttore, ma queste sono cose secondarie. Ora, se un corrotto può farla franca fingendo un provvidenziale ravvedimento che lo salvi dal gabbio, vi immaginate un ladro di autoradio (ma si rubano ancora le autoradio??) che non può andare dal giudice a dire “Restituisco la refurtiva, ma non processatemi”?? Siamo all’assurdo che per un furtarello si va in galera e non ci sono santi, e per aver preso mazzette ce la si può cavare facendosi spuntare l’aureola dei bravi cittadini redenti, quando il reato di corruzione desta un allarme sociale notevole. Per uscire indenni da una accusa di diffamazione bisogna mettere mano al portafoglio e risarcire il danno prima che cominci il dibattimento (sempre se il giudice lo accetta), per una corruzione basta un “mea culpa”. E che cazzo!

E’ uno spettro da seconda repubblica che non spaventa ormai più nessuno. Però inquieta non poco.

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